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Target comportamentale? No, grazie (almeno per ora)

Dietro il termine, oscuro solo all’apparenza, si nascondono grandi opportunità di Web marketing, ma anche varie problematiche. Spiegate da una recente ricerca di mercato

Da tempo chi si occupa di Web marketing, e nello specifico di pubblicità online, dibatte sull’efficacia del cosiddetto behavioral targeting. Si tratta di una tecnica di marketing che definisce il target – ovvero l’utenza da raggiungere – su base comportementale. Rispetto all’approccio basato sul targeting contestuale, quello comportamentale cerca di comprendere meglio l’utente, raccogliendone grandi quantità di informazioni (le pagine visitate, il tempo speso su ciascuna pagina, le ricerche usate per raggiungerla, l’orario di connessione etc.) grazie a mezzi tecnici specifici quali gli ad server.

Dalle informazioni raccolte, si ricostruisce un profilo ampio e dettagliato degli utenti, risalendo alle loro abitudini (ma anche interessi e scopi) di navigazione, proponendo loro pubblicità online in base a quanto si riesce a ricostruire del loro stile di navigazione e non solo in base al sito in cui si sta navigando.

Ma con un rovescio della medaglia evidente: la privacy. Così, almeno, sostiene la ricerca di eMarketer intitolata “Behavioral Targeting Attitudes: The Privacy Issue” (che in italiano potrebbe suonare bene come “Approcci di target comportamentale: la questione della privacy“). I vari Social Ads di Facebook o HyperTargeting di Myspace, per tacere dello spaccatredici AdSense di Google, vengono analizzati con spirito critico: “I consumatori vogliono che le pubblicità siano rilevanti per i propri bisogni, ma nutrono sentimenti contrastanti su come questa rilevanza venga conseguita”.

“Il 70,5% degli utenti intervistati è conscio – continua il report – del fatto che la propria navigazione sia tracciata da terze parti per scopi pubblicitari, ma solo il 23% è d’accordo con questa pratica, anche se viene loro assicurato che non verrà divulgata nessuna informazione personale”. Insomma, la questione è chiara e coinvolge su vari piani chi fornisce connettività, chi eroga i servizi e chi ne fruisce, le associazioni dei consumatori e gli enti garanti della privacy.

La ricerca di eMarketer suggerisce che chi fa pubblicità debba informare ancora meglio i consumatori, e che a questi venga offerta la possibilità di sottrarsi alla raccolta dei dati. “Un modo di assicurarsi che i consumatori accolgano positivamente tecniche di behavioral targeting è chiedere loro in maniera esplicita l’assenso”. Il che, tutto sommato, è quanto suggerito dall’Internet Advertising Bureau qualche mese fa.

E se oltre alla privacy i sospetti dei consumatori si spiegassero anche con una certa delusione? Non è un’ipotesi da escludere a priori: secondo la ricerca di eMarketer, solo il 12,6% degli intervistati ha ritenuto utile almeno un quarto delle pubblicità mirate ricevute. Come a dire, oltre al danno (di sentirsi osservati), la beffa (di non riceverne grande utilità).

fonte: mytech.it

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