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Pubblicità, il click-through è moribondo

Uno studio americano dimostra che il click-through ha i giorni contati. Solo il 6% degli utenti internet Usa infatti è responsabile dei click sul 50% dei banner: una base poco solida per fondarvi gli investimenti pubblicitari.

La pubblicità è sempre al centro dell’attenzione in quanto fa girare soldi. Oggi in particolare si parla nuovamente dei click sui banner. Ci sono, non ci sono, sono fasulli, sono utili? Un nuovo studio – Natural Born Clicker – realizzato da un consorzio di investitori statunitensi, prova a fare un po’ di chiarezza sull’argomento. Il risultato è che solo il 6 per cento di chi naviga negli Stati Uniti è responsabile del 50 per cento delle visualizzazioni pubblicitarie. Il modo di misurare l’avvenenza dell’annuncio finora è stato il “click-through”, un sistema che ora, almeno secondo alcuni, ha i giorni contati.

Lo studio rivela, infatti, che un piccolo gruppo di consumatori non rappresentativi della popolazione totale statunitense online è responsabile della stragrande maggioranza di visualizzazione degli annunci. Il problema è quindi che questo tipo di misurazione non restituisce realmente i gusti della maggioranza e non funziona come guida agli investitori.

Nel click through pesa il comportamento di utenti “giovani-adulti” (in particolare la fascia fra i 25-44 anni) e di famiglie con un reddito inferiore ai 40 mila dollari, con spiccate preferenze verso le aste online, il gioco d’azzardo, e i siti di servizi.

Inoltre, questo sistema di misurazione non tiene conto dell’importanza della marca. Spesso infatti basta vedere dei brand per essere invogliati a comprare, online e offline. Insomma, il click through può essere usato per capire la risposta diretta a certe campagne pubblicitarie ma non del rendimento dell’uso dei banner online.

Anche la pubblicità dei social network sembra deludere. Persino Google. Il gigante di Mountain View fa sapere di aver guadagnato meno di quanto previsto dagli annunci che sparge nei siti di socializzazione. Il motivo ipotizzato è che mentre chi usa il search engine sta cercando qualcosa ed è quindi più incline a cliccare su annunci che corrispondano o si avvicinino a ciò che sta cercando, gli utenti di un sito social navigano con altre aspettative. Non cercano ma socializzano, appunto. C’è da dire però che la presenza di una marca su quetsi siti rafforza la otorietà del brand, dato che è comunque vista da milioni di utenti.

Meglio concentrarsi, attraverso una riorganizzazione degli algoritmi, su alcuni temi in particolare, suggerisce questo studio: sui viaggi e lo shopping in particolare, in quanto solitamente prevedono attività di gruppo. Persino gli intenti diametralmente opposti di Google e dei social network dimostrano il ragionamento: il primo punta a vedere l’utente arrivare sul sito e lasciarlo immediatamente a favore di un annuncio, i secondi sperano di trattenerlo il più a lungo possibile.

fonte: visionpost.it

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